Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole – Vera Gheno

La lingua è viva, cambia di continuo. Perché noi parlanti la facciamo nostra e la modifichiamo in tanti modi. Ci inventiamo nuove parole o ne importiamo quando ne abbiamo voglia o bisogno:
– quando ne scopriamo dalle altre lingue, per moda;
– quando vogliamo dare forma a un concetto che non si può esprimere con un vocabolo che già conosciamo;
– quando ci riferiamo a un oggetto (di discussione), un ambito che ha già un suo gergo in una lingua diversa (l’inglese e il calcio, per esempio, o la musica classica e l’italiano).

Spesso sono gli errori che, poco alla volta, diventano nuova regola perché si diffondono: con i mezzi di comunicazione di massa (dal quotidiano in avanti) è quasi impossibile arginarne la circolazione. Quanti di noi usano in modo transitivo i verbi uscire, entrare, avanzare (nel senso di “lasciare nel piatto”); credono che “piuttosto che” voglia dire “oppure”… E quanti di noi non sanno nemmeno che stanno sbagliando, perché nel luogo in cui sono cresciuti si è sempre detto così.

Quando l’errore è ormai troppo comune, (forse) bisogna conviverci e sperare che non causi fraintendimenti pericolosi. Ma se la lingua cambia, dal basso, anche con gli sbagli dei parlanti, perché non dovrebbe poter cambiare quando – sempre dal basso – emergono delle nuove necessità che non fanno male a nessuno?

La domanda (una delle tante, quella che mi è sembrata la più centrale) di Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole di Vera Gheno è proprio questa. Trovare una risposta razionale, serena, composta, è difficilissimo, perché arduo è smontare i pregiudizi.

Fra le obiezioni che la sociolinguista ha incontrato più spesso nelle conversazioni sui social, quando si parla di declinare al femminile i nomi di mestieri che finora si sono usati solo al maschile, ci sono più o meno queste:
– è cacofonico;
– è orribile;
– snatura la lingua “tradizionale”;
– è inutile;
– non è così che si raggiunge la parità di genere;
– svilisce la donna che svolge quella professione (per me è la risposta più difficile da capire).

Come è facile immaginare, nella maggior parte dei casi a parlare è chi non è toccato dal problema (come succede spesso quando si parla di aborto, per esempio): i maschi. Ma sono anche le stesse donne che, talvolta, contestano l’utilità di declinare al femminile i nomi di tante professioni che, diversamente da decenni o secoli fa, non sono più appannaggio dei soli uomini.

La cosa che mi colpisce è che spesso usiamo gli stessi argomenti per sostenere tesi opposte, o viceversa argomenti lontani per arrivare alle stesse conclusioni. Se fai notare a un piuttostocheinə o a unə avanzinə che sta usando quei termini nel modo sbagliato, ti dirà che la lingua cambia, che i significati si modificano con l’uso, eccetera. La stessa persona, però, ti potrebbe anche dire che avvocata, architetta, sindaca sono “abominevoli, ridicoli”, “e allora diciamo anche pediatro, astronauto, giornalisto”, che non si cambia la lingua per decreto, che la tradizione linguistica va rispettata (quindi la lingua cambia solo quando ci fa comodo?). Lo stesso discorso vale per l’uso dellə schwa, uno fra i tentativi (dal basso) di trovare un linguaggio più rappresentativo di tutto quello che c’è fra i due estremi femmina-maschio.

Non c’è nessun decreto e nessuno sta imponendo alcunché dall’alto. Chi ci ha provato sono stati i fascisti e i discendenti, ma se qualche parola autarchica introdotta per legge è sopravvissuta è stato solo perché, coincidenza, ha trovato un suo ruolo “naturale” fra i parlanti. Oggi il tramezzino è comune, ma le bevande arlecchine?

Dire, poi, che usare il femminile è una perdita di tempo, che sono ben altri i problemi, che la realtà concreta è indifferente a tutto ciò (eccolo, il benaltrismo), è sbagliato, e sono queste stesse persone che lo confermano: sono abituate a pensare la “normalità” in un certo modo, ma la normalità non è un fatto naturale: è un costrutto culturale. La lingua, il codice arbitrario che usiamo per capirci, e la società, nel concreto, si influenzano a vicenda. Con le parole denotiamo e connotiamo il mondo, e viceversa scoprire il mondo ci obbliga a trovare le parole giuste per descriverlo. Il linguaggio forma il pensiero e il modo in cui pensiamo influenza quello in cui ci esprimiamo.

In una società in cui la maggior parte dei mestieri è sempre stata svolta dall’uomo, è normale che non ci sia la necessità di renderne i nomi al femminile. Ma quando la società cambia, lo fa anche la lingua. Senatrice non è più cacofonico, perché ce ne sono più di prima. Ostetrica non è uno scandalo, perché questa professione è stata un’esclusiva di molte più donne. Ma oggi esistono anche gli ostetrici maschi, o gli infermieri maschi a dispetto dell’immaginario collettivo del Novecento, e non abbiamo memoria di una levata di scudi contro l’uso al maschile di tali termini.

Ecco perché il femminismo è nelle parole tanto quanto lo è nei fatti. Anche le parole sono fatti.

Perdonate gli eventuali errori nell’uso dellə schwa: sto imparando.


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