Una breve storia dell’uguaglianza – Thomas Piketty 

L’educazione economica e finanziaria non è né così comune né così pop. Non lo è adesso, ancora, nonostante la pandemia del 2020 abbia favorito lo sviluppo di contenuti su questo tema soprattutto sui social. Saperne qualcosa di macroeconomia, finanza, investimenti, lavoro, fondi pensione, per tanti di noi non è così figo o urgente come sapere chi ha vinto gli Oscar o commentare la crisi dei Ferragnez e il pandoro-gate. 

Eppure, sapere certe cose ci serve. Nel quotidiano, in concreto, per difenderci da tanti piccoli o grandi soprusi di chi ha più potere economico e negoziale di noi, o cerca di imbrogliarci. Quando il dipendente di una banca (che non è un consulente ma un venditore) ti propone un prodotto costoso e poco efficiente spacciandolo per l’occasione del secolo. O quando il tuo capo ti propone un aumento di stipendio più basso del tasso d’inflazione o ti chiede il pizzo per versare la quota mensile del TFR sul fondo pensione (soldi che sono già tuoi, e che al massimo l’azienda custodisce per conto tuo) e ti dice: “dobbiamo coprire i costi dell’operazione” quando intende “non vogliamo tirar fuori subito questi soldi”, ignorando o facendo finta di non sapere che lasciare il TFR in azienda gli costerebbe molto di più.  

Un mondo in cui tutti abbiano una cultura economica e finanziaria di base è quello che si augura Thomas Piketty, e leggere i suoi libri ci avvicina molto all’obiettivo. Come egli stesso precisa, Breve storia delle disuguaglianze è una sintesi molto chiara, semplice ma non banale di altri studi già pubblicati: un viaggio che parte quando (più o meno) gli imperi coloniali francese e inglese, al massimo dell’estensione e del potere, iniziano a subire le rivolte degli indigeni schiavizzati. La marcia dalla disuguaglianza all’uguaglianza non è certo finita, non è nemmeno a metà dell’opera e potremmo dire che non è poi cominciata così bene: se un impero lascia libera la colonia ma poi le impone un risarcimento così alto da bloccarne lo sviluppo, se i trattati commerciali internazionali li fa solo chi è più ricco, se i prestiti ai paesi poveri (impoveriti dal dominio coloniale) hanno tassi di interesse immorali… Ma il processo, almeno, è iniziato.  

Rispetto a due secoli fa, le differenze tra la minoranza più ricca e la maggioranza più povera si sono assottigliate, è vero. Ma soprattutto perché è cresciuta la classe media: la concentrazione del reddito e delle risorse continua ad essere in mano a una percentuale ridicola della popolazione e i più poveri non hanno comunque nulla, in confronto. 

I lavoratori hanno più diritti, in media, ma la schiavitù non è sparita. In tante parti del mondo è molto simile a com’era prima della Guerra di Secessione, altrove ha assunto altre forme rintracciabili nello squilibrio di potere (e di tutele pubbliche) fra dipendente e datore di lavoro, fra stati del Nord e del Sud del mondo. Eppure, sono i dipendenti che, uno insieme all’altro, permettono all’impresa di funzionare e al “CEO e Founder top 10 Forbes enterpreneur esticazzi” di trasformare gli utili in una villa a Cortina. 

Ci sarebbero tanti passaggi che ognuno di noi, dalle elementari alla pensione, dovrebbe appendere in camera come i poster di un Van Basten o un David Bowie qualsiasi: riportarli qui sarebbe inutile, tanto vale leggere tutto il libro. È avvincente come un legal thriller

Quello che a tanti di noi manca, perché non sempre la scuola e la famiglia ce la trasmettono, è la voglia di imparare anche le cose che ci appassionano di meno. Basterebbe trasformare qualcosa di noioso e astratto in qualcos’altro di divertente e concreto, cioè fare edutainment. Guardare film come La grande scommessa per capire la crisi finanziaria del 2008, ad esempio. Giocare a Monopoly e imparare la pianificazione finanziaria dalla prima paghetta. Se si comincia da piccoli, da grandi non ci saranno concetti troppo complessi da capire. 


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